Le prime «fotografie animate» svizzere

A Roland Cosandey

Sommario


L’inventore Casimir Sivan

Il Kinetoscope di Thomas A. Edison e William K. L. Dickson è un cassone di legno alto 123 centimetri che pesa 75 chilogrammi. L’oculare fissato sulla parete superiore permette a una singola persona di visionare una ventina di secondi d’immagini fotografiche animate. L’invenzione venne commercializzata negli Stati Uniti a partire dal 14 aprile 1894, riscontrando notevole successo. Sbarcò poco tempo dopo in tutta l’Europa e arrivò in Svizzera presumibilmente agli inizi di marzo 1895, su iniziativa della ditta Casimir Sivan & Co. di Ginevra, specializzata nella meccanica orologiera e nella fabbricazione di automi. L’orologiaio ginevrino Casimir Sivan (1850–1916) ottenne poi il permesso d’installare un Pavillon Edison in margine all’Esposizione nazionale svizzera, svoltasi a Ginevra dal 1o maggio al 15 ottobre 1896. Oltre al Kinetoscope vi presentava anche il celeberrimo Phonograph e il Kinetophone (una combinazione dei due apparecchi).

Innumerevoli persone, guardando nell’oculare, ebbero l’idea di modificare l’apparecchio affinché le immagini siano visibili a più spettatori nel contempo. Proiettori cinematografici vennero immaginati indipendentemente e più o meno simultaneamente nelle maggiori nazioni industrializzate dell’Europa e negli Stati Uniti. Quando i nuovi apparecchi permisero la visione in gruppo di immagini fotografiche animate, proiettandole «in grandezza naturale» su uno schermo, l’invenzione di Edison e Dickson era divenuta obsoleta.

Il cinematografo nacque così un po’ ovunque negli Stati Uniti e in Europa durante l’ultimo decennio dell’Ottocento e tra i pionieri possiamo menzionare anche Casimir Sivan. Il 23 maggio 1896 egli depositò presso l’Ufficio federale della proprietà intellettuale di Berna, insieme a E. Dalphin, il brevetto numero 11 755. Nella descrizione leggiamo di un «apparecchio perfezionato per l’esposizione alla luce di strisce di pellicola sensibile e per la proiezione di serie di immagini fotografiche stampate su strisce di pellicola». Grazie alle ricerche svolte al di qua dell’Atlantico dallo storico del cinema Roland Cosandey e grazie agli accertamenti fatti al di là dell’Atlantico da Paolo Cherchi Usai, direttore del Film Departement alla George Eastman House di Rochester (New York), negli anni 1992–1993 si è potuto appurare che Sivan riuscì a oltrepassare la fase di progettazione. È infatti stato possibile, d’una parte, di identificare presso la Cineteca svizzera uno spezzone di circa 5 metri del film [Palais des Beaux-Arts], girato da Sivan nell’estate 1896 all’Esposizione nazionale di Ginevra e, d’altra parte, di rintracciare a Rochester un proiettore e una macchina da presa costruiti da Sivan.

Palais des Beaux-Arts

[Palais des Beaux-Arts] di Casimir Sivan (Svizzera 1896)
Fotografia: Cineteca svizzera

Ma le sorprese non erano finite! A metà luglio 1996 è giunta da Rochester la lieta notizia del ritrovamento di quattro frammenti di film girati da Casimir Sivan nell’estate 1896 – cioè esattamente un secolo prima – a Ginevra. Tra questi figura di nuovo il [Palais des Beaux-Arts] in una versione forse completa di circa 15 metri di lunghezza (corrispondenti a circa 50 secondi di proiezione). Queste immagini sono state restaurate e trasferite su pellicola di formato standard, affinché possano essere proiettate con gli abituali proiettori cinematografici. Come tante altre «fotografie animate» degli albori del cinema, esse costituiscono documenti singolari di un’era storica ormai perduta.

L’operatore François-Henri Lavanchy-Clarke

La prima proiezione cinematografica pubblica della Svizzera ebbe luogo il 7 maggio 1896, proprio a due passi dal Pavillon Edison. L’imprenditore vodese François-Henri Lavanchy-Clarke (1848–1922) presentò al Palais des Fées il Cinématographe di Louis Lumière che allora già dilagava nel resto dell’Europa e che avrebbe imposto mondialmente il cinema in pochi anni. Sivan protestò presso i responsabili dell’Esposizione nazionale per essere stato soppiantato dal concessionario di un apparecchio di origine straniera, valendosi del brevetto depositato.

Lavanchy-Clarke proiettava anzitutto i classici del repertorio Lumière che duravano una cinquantina di secondi l’uno. Girò però anche numerose «vedute» locali, spesso facilmente riconoscibili, perché vediamo nell’immagine una scritta pubblicitaria del sapone Sunlight (di cui allora era il rappresentante per la Svizzera) oppure lo stesso Lavanchy-Clarke. Integrava questi film nel suo programma e alcuni vennero poi inseriti nel catalogo Lumière. Nel catalogo troviamo infatti i seguenti film di Lavanchy-Clarke: Place Bel-Air (girato a Ginevra); Cascade, Fête au village e Rentrée à l’étable (girati al Village suisse dell’Esposizione); Cortège arabe, Danse égyptienne e Water-to-bogant (girati nel Parc de Plaisance, situato in margine all’Esposizione). Vi figura inoltre Scieurs de bois (Losanna), presumibilmente girato da Constant Girel. Allo stato attuale delle ricerche non è possibile attribuite con certezza a Lavanchy-Clarke o all’operatore Alexandre Promino – oppure ad altri ancora – le rimanenti «vedute» svizzere del catalogo: Pont sur le Rhin (Basilea); Procession (Interlaken); Défilé du 8ème Bataillon (Losanna); Chutes du Rhin vues de prés e Chutes du Rhin vues de loin (Sciaffusa); Départ d’un bateau à vapeur sur le lac Léman; Panorama dans les Alpes (Zermatt); Exercises de tir par l’artillerie; Arrivée du roi de Siam (Berna); Un troupeau suisse; Montreux. Panorama, Montreux. Fête des Narcisses I. Marquises dans leurs chaises à porteurs e Montreux. Fête des Narcisses II. Le menuet. Senza dimenticare che una cinquantina di film girati da Lavanchy-Clarke non furono accolti nel catalogo Lumière, come per esempio Départ du funiculaire Territet-Glion. La maggior parte di queste riprese venne eseguita tra il maggio 1896 e la primavera 1897, ma i tre film su Montreux sono posteriori di almeno un anno.

In queste «fotografie animate» tutto è in movimento. Vediamo gente che passa, che sfila o che danza; tram, carri e cabriolet in corsa; barche a vela e battelli a vapore che navigano sul lago; torrenti e cascate che scorrono; fumo che s’innalza. Alcune volte l’operatore mantiene nel campo una persona o una cosa in movimento, altre volte la raccoglie prima per lasciarla poi sfuggire di nuovo fuori dal campo. E ogni tanto è la macchina da presa stessa a spostarsi senza che lo spettatore possa vedere quale sia il mezzo di locomozione usato.

Dalla fotografia al cinema

L’interesse dei primi improvvisati cineasti era rivolto anzitutto all’apparecchio, al «meraviglioso» ma certo anche misterioso congegno che consentiva di «fissare e riprodurre la vita». I film come tali avevano un’importanza sussidiaria: permettevano all’apparecchio di funzionare e, in definitiva, di dare spettacolo.

L’effetto prodotto dalla visione di un film muto è diverso dalle emozioni che può suscitare un film sonoro: differente, non minore o meno forte. Il muto era un’altra forma di espressione. Si possono inoltre distinguere almeno due fasi nel cinema muto, divise dalla Prima guerra mondiale, che hanno ben poco a vedere l’una con l’altra. L’estetica cinematografica dominante fino agli anni 1914–1918 era di stampo prettamente ottocentesco.

Le didascalie anticipano ciò che lo spettatore vede allo schermo poco dopo. Questa struttura comunicativa proviene dal romanzo del secolo XIX, in cui sotto la menzione del capitolo si dà puntualmente al lettore, mediante un testo più o meno corto, il rissunto di quel che segue. Presente anche nei film «dal vero» e nelle «attualità» degli anni Dieci del secolo XX, questa forma rimase corrente a lungo nei cinegiornali, un genere popolarissimo che resistette per decenni all’egemonia della finzione. Le immagini rincorrevano – in opposizione al modo con cui li presentavano al pubblico – i miti della modernità: la velocità dell’automobile, il progresso dell’aeronautica, l’«exploit dello sportsman».

L’inquadratura era concepita secondo i canoni fotografici del tardo Ottocento: le composizioni sfruttano la profondità di campo e il movimento si sviluppa spesso lungo una diagonale che va da campo lungo a destra fino a mezzo primo piano a sinistra. Le ragioni della scelta della profondità di campo, come ha rilevato lo storico del cinema Riccardo Redi, non vanno cercate negli obiettivi. Fin dai primi anni del cinema esistevano gli obiettivi che avrebbero consentito agli operatori di scegliere tra profondità di campo o messa a fuoco su uno solo del vari piani del campo. (Ricordo, tra parentesi, che la profondità di campo è inversamente proporzionale all’apertura del diaframma.) La scelta di avere un’immagine tutta a fuoco non ha ragioni techniche e si impose al cinema fino negli anni Venti del secolo XX. È quindi dovuta al gusto e ai codici in uso. Un distacco dei piani ottenuto mediante la messa a fuoco non veniva usato e forse non era nemmeno concepibile. E la scelta opposta, cioè la messa a fuoco di un solo piano (di solito gli attori, lasciando sfocato lo sfondo), verrà paradossalmente fatta proprio quando saranno disponibili pellicole più sensibili, forte luce artificiale e obiettivi più perfezionati.

Comme illustrano gli esempi delle didascalie e della profondità di campo, non è possibile comprendere e studiare questo cinema, senza una preliminare rimessa in contesto, evocando almeno gli aspetti socio-culturali che permisero alle immagini di funzionare.

Reto Kromer


Questo articolo è uscito su Almanacco del Grigioni italiano 1997 (Poschiavo), pp. 72–74.


2016-12-11